Il sabato di casa mia

Tema: prendendo spunto dalla poesia di Giacomo Leopardi, “Il sabato del villaggio”, racconta come vivi il sabato e cosa esso rappresenta per te.

 

Il sabato mio padre torna dalla fabbrica sporco di grasso, con addosso un odore di sudore e di metallo. Non c’è nessuna donzelletta che torna con lui, perché la donzelletta, che sarebbe mia madre, è morta, anche se quando si era fatta visitare le avevano detto che non doveva preoccuparsi.

Mio padre porta in un sacchetto una bottiglia di liquore, ma a volte anche vino e a volte birra, dipende dal tempo che fa. Lo porta perché il giorno dopo è festa e dopo aver bevuto non riuscirebbe ad alzarsi per andare a lavorare. Con il liquore dorme fino a mezzogiorno, con il vino fino alle undici. Beve la birra se vuole alzarsi un po’ prima, per andare al bar a farsi una birra.

Fino all’anno scorso la vecchierella, che sarebbe mia nonna, sedeva sulla porta con le vicine, a parlare del più e del meno, in particolare del tempo. Era molto brava a fare le previsioni del tempo, ma ora è morta.

Al sabato non esco a giocare, perché i miei amici sono in casa con la playstation e giocano come attaccanti o centravanti. Io non ho i soldi per la playstation e comunque se ne vanno in liquori, vino e birra. Mio padre giura che così ci si diverte molto di più. Io comunque anche se avessi i soldi per la playstation non ci giocherei, perché seduto mi annoio e dopo un po’ mi viene da dormire.

Quando scende la sera arrivano sotto i portici gli spacciatori e anche il suono delle campane è diverso, come se fossero sballate, invece ci dicono che domani sarà festa. Però a me le campane del sabato ricordano soprattutto il giorno che precede la morte, perché la donzelletta e la vecchierella sono morte di domenica e di domenica anche il mio cane, che si chiamava Venerdì, così lo ricordo in due giorni diversi.

Il fratello di mio padre dicono che si è tolto la vita, una cosa che non capisco bene, perché di solito la vita finisce quando si ferma il cuore o quando si rimane sotto le ruote di un autobus, come è capitato al mio amico Peppo domenica scorsa prima della gita dell’oratorio. Se dovessi togliermi la vita non saprei da che parte cominciare, forse dovrei salire sul campanile, ma dicono che è molto pericoloso.

Comunque il fratello di mio padre ha aspettato domenica a morire, perché gli sembrava giusto, una tradizione di famiglia, un po’ come la Pasqua, che cade sempre di domenica, caschi il mondo.

Per Giacomo Leopardi il sabato è un giorno di speranza e anch’io vorrei che non finisse mai, ma più che altro perché poi viene la domenica e la domenica nove volte su dieci non è un gran bel giorno, almeno per me.

Cuochi solitari

Racconta a quelli di giù, quelli a livello del mare, o persino sotto, che esistono posti bellissimi, che nemmeno immaginano.

Racconta che a 2037 metri sopra il livello del mare ci sono io. Quando apro la finestra vedo il cielo. Né tetti, né strade. E molti che fanno il mio mestiere hanno scelto come me: di cucinare ad alta quota.

Se quelli di giù hanno fame, e sono spiriti liberi, che vengano pure. Ci sono una strada nel bosco e una parete di roccia, e poi un sentiero di sassi, stretto come i tuoi piedi, che sembra piano, ma non arriva mai. Non è nulla, tutto questo, al confronto del cielo che si avvicina. E se uno arriva fin quassù, se rimane vivo, intendo, oltre alle parole degli spiriti – perché qui ti parlano – può sentire il profumo della mia specialità, la nuvola di polenta con agave trifolata.

Non che io sia nato quassù, ho abitato e lavorato a Milano e Parigi, New York e Toronto. Poi un bel giorno sono uscito di casa e respiravo male e quando camminavo sotto un grattacielo mi mancava il fiato. Poi, quando entravo in un parco, tutto passava. Ho preso medicine omeopatiche, droghe, mi sono lasciato infilzare dagli aghi cinesi, ho cercato di uscirne con l’ipnosi. Niente. Poi mi è venuta la claustrofobia, poi mi sono venuti gli attacchi di panico, poi l’ipertensione, la tachicardia, un principio di sordità.

Quelli di giù morivano come mosche, per mali sconosciuti e fulminanti. Per finire l’aiuto cuoco si è annegato nel minestrone perché un cliente era rimasto scontento della sua soupe. E così mi sono detto che era troppo, che dovevo cambiare aria.

Non avevo idea della meta, ho camminato per sessantadue giorni, quattro ore e venti minuti, con due o tre padelle sulla schiena, lo stretto necessario. Me le sono portate su durante l’arrampicata, mani nude sulla roccia, e se non fossi riuscito ad arrivare in cima, lontano da quelli di giù, tanto valeva che morissi anch’io.

E invece ci sono riuscito e di colpo ero guarito. Sentivo un fruscio lontano cento metri, il cuore batteva così lento che avevo paura che si fermasse, non avevo più traccia d’asma, nemmeno con il polline, con la polvere, con il detersivo per piatti. Non era bello ricominciare?

Da allora nel mondo di giù non ci sono più tornato. Il mio ristorante ha trenta posti e poco distante ho predisposto un piccolissimo rifugio. La vetrata della sala guarda a est, quindi si può fare colazione guardando l’alba. Scalatori professionisti mi portano le forniture. Non ci sono abitazioni, non ci sono chiese, si può dire che sono un cuoco prossimo al cielo e i miei piatti risentono della leggerezza dell’aria.

Ho pensato per settimane al nome del ristorante, poi l’ho chiamato Ernesto, che è il nome del ragazzo del minestrone e attenua la mia vocazione di cuoco solitario, il più alto del mondo (parlo di alta cucina in altitudine).

Puoi dire a quelli di giù che se riusciranno ad arrivare fin qui, non dico che capiranno il senso della vita, ma avranno modo di ragionare su molte cose, perché il tempo qui si dilata. È facile che una colazione diventi pranzo, poi cena. Arrivano spesso tempeste di neve, temporali improvvisi e si rimane prigionieri. E a questo punto uno capisce se appartiene a quelli di giù.