Racconta a quelli di giù, quelli a livello del mare, o persino sotto, che esistono posti bellissimi, che nemmeno immaginano.
Racconta che a 2037 metri sopra il livello del mare ci sono io. Quando apro la finestra vedo il cielo. Né tetti, né strade. E molti che fanno il mio mestiere hanno scelto come me: di cucinare ad alta quota.
Se quelli di giù hanno fame, e sono spiriti liberi, che vengano pure. Ci sono una strada nel bosco e una parete di roccia, e poi un sentiero di sassi, stretto come i tuoi piedi, che sembra piano, ma non arriva mai. Non è nulla, tutto questo, al confronto del cielo che si avvicina. E se uno arriva fin quassù, se rimane vivo, intendo, oltre alle parole degli spiriti – perché qui ti parlano – può sentire il profumo della mia specialità, la nuvola di polenta con agave trifolata.
Non che io sia nato quassù, ho abitato e lavorato a Milano e Parigi, New York e Toronto. Poi un bel giorno sono uscito di casa e respiravo male e quando camminavo sotto un grattacielo mi mancava il fiato. Poi, quando entravo in un parco, tutto passava. Ho preso medicine omeopatiche, droghe, mi sono lasciato infilzare dagli aghi cinesi, ho cercato di uscirne con l’ipnosi. Niente. Poi mi è venuta la claustrofobia, poi mi sono venuti gli attacchi di panico, poi l’ipertensione, la tachicardia, un principio di sordità.
Quelli di giù morivano come mosche, per mali sconosciuti e fulminanti. Per finire l’aiuto cuoco si è annegato nel minestrone perché un cliente era rimasto scontento della sua soupe. E così mi sono detto che era troppo, che dovevo cambiare aria.
Non avevo idea della meta, ho camminato per sessantadue giorni, quattro ore e venti minuti, con due o tre padelle sulla schiena, lo stretto necessario. Me le sono portate su durante l’arrampicata, mani nude sulla roccia, e se non fossi riuscito ad arrivare in cima, lontano da quelli di giù, tanto valeva che morissi anch’io.
E invece ci sono riuscito e di colpo ero guarito. Sentivo un fruscio lontano cento metri, il cuore batteva così lento che avevo paura che si fermasse, non avevo più traccia d’asma, nemmeno con il polline, con la polvere, con il detersivo per piatti. Non era bello ricominciare?
Da allora nel mondo di giù non ci sono più tornato. Il mio ristorante ha trenta posti e poco distante ho predisposto un piccolissimo rifugio. La vetrata della sala guarda a est, quindi si può fare colazione guardando l’alba. Scalatori professionisti mi portano le forniture. Non ci sono abitazioni, non ci sono chiese, si può dire che sono un cuoco prossimo al cielo e i miei piatti risentono della leggerezza dell’aria.
Ho pensato per settimane al nome del ristorante, poi l’ho chiamato Ernesto, che è il nome del ragazzo del minestrone e attenua la mia vocazione di cuoco solitario, il più alto del mondo (parlo di alta cucina in altitudine).
Puoi dire a quelli di giù che se riusciranno ad arrivare fin qui, non dico che capiranno il senso della vita, ma avranno modo di ragionare su molte cose, perché il tempo qui si dilata. È facile che una colazione diventi pranzo, poi cena. Arrivano spesso tempeste di neve, temporali improvvisi e si rimane prigionieri. E a questo punto uno capisce se appartiene a quelli di giù.