Smith

Sheldon non sudava così dall’estate del ’98, quando un bel mattino invece del sole era spuntata una palla di fuoco, che aveva bruciato in meno di un’ora la sua nuova semina d’erba.

Piccole pozzanghere sulla sua scrivania mandavano i riflessi di un tramonto malato. Si sbottonò la cravatta, poi la camicia, poi i pantaloni e si accorse che forse aveva esagerato.

Sheldon, laggiù in fondo, gli sorrise, con un misto di simpatia e antipatia. “Che ti succede, Sheldon, hai paura?”

Sheldon, fissando la faccia di Sheldon devastata da sentimenti così contrastanti, si preoccupò. “Ti sei di nuovo innamorato di me?”

“Piantala, tutte le volte la stessa storia. Tutte le volte. Potrei offendermi.”

Sheldon sorrise. Quella volta che erano ubriachi, ma era una delle tante, erano caduti a terra urtandosi a vicenda, mentre stavano andando in bagno, in un pub. Si erano aggrappati uno all’atro per rialzarsi, si erano abbracciati, alla fine, e Sheldon aveva detto a Sheldon che l’amava. Il giorno successivo, a mente lucida, aveva detto che invece del viso del suo collega aveva visto quello della Sheldon, la cantante jazz. Lui stravedeva per la Sheldon, per la sua voce roca, che emanava sensualità ad ogni sillaba, ad ogni singola nota.

“No che non ho paura” disse Sheldon. Però un po’ ce l’aveva, era da mesi sulle tracce di Sheldon, il più grosso trafficante dell’America latina da una decina d’anni, almeno da quando il suo vecchio durante un incontro d’alcova a tre più uno – e dopo un surplus di coca – ci aveva rimesso le penne, appena prima dell’orgasmo, il che gli aveva lasciato sul viso, anche dentro la bara, un’aria di delusione cocente, più che di dolore. E quel viso l’avevano visto migliaia di persone, sfilando nella camera ardente. Ma il giovane Sheldon aveva il cuore ancora buono e ci voleva un segugio come Sheldon per incastrarlo.

Sheldon era da mesi sulle tracce di Sheldon e aveva il fiato sul collo, questa era la verità. Non solo erano cambiati i vertici dell’antidroga – era stato messo il figlio del senatore Sheldon, guarda un po’, uno che sembrava lì apposta per insabbiare, ma stranamente non nel caso del narcotrafficante Sheldon. Come se non bastasse si era messo di mezzo nientedimeno che il Presidente Sheldon, prossimo alla seconda elezione e in cerca di una riconferma. Avere il naso del Presidente in quell’ufficio poteva significare anche la fine di una carriera, se le cose si fossero messe male.

“Abbiamo passato di peggio” disse Sheldon, che a vedere il collega sudare così – e si era a maggio – cominciava a sentire troppo caldo, anche se stava cercando di evitare di allentare la cravatta e slacciare la camicia e tutto il resto.

“Ti garantisco che il peggio deve ancora venire.”

Sheldon alzò le spalle. Gli squillò il telefono, sollevò la cornetta. Fece un sorriso nervoso, aveva ragione Sheldon, il peggio doveva venire. “Sì, tesoro, sì, Sheldon, senti, ciccina, non dovrei dirtelo, ma stiamo portando a termine una delle più grosse operazioni degli ultimi anni, ma cosa mi fai dire, proprio non dovrei dirtelo.” Staccò la cornetta dall’orecchio, ne usciva un cinguettio continuo. Riprese a parlare. “Quella volta ero ubriaco, ma questa volta è una cosa grossa, davvero.”

Il cinguettio aumentò di intensità, sembrava una foresta piena di uccelli sul far del giorno. “Lo stupido cane non l’abbiamo regalato a nostra figlia? Perché non se ne occupa lei? È troppo occupata con Sheldon, magari? Ricorda a Sheldon che il cane glie l’abbiamo regalato il giorno del suo sedicesimo compleanno, e ora ha sedici anni e un mese e si è già dimenticata di lui. Che, una di sedici anni e un mese non può portare il cane dal veterinario? Va bene, non dovrei dirtelo, ma quando il Presidente, perché qui stiamo parlando del Presidente, quando il Presidente mi chiederà conto dell’operazione di oggi gli dirò che non c’ero, perché ho portato Sheldon a fare una visitina.” Nella cornetta tutti gli uccelli si zittirono e quello sì che fu terribile. “Pronto, pronto, ci sei? D’accordo, porto Sheldon dal veterinario, ma Sheldon non esce. Ecco lì. Così impara. Ciao. Ciao. Sì, ciao. Sì, ora esco, ciao.”

“Così, mi pianti” disse Sheldon in piedi davanti a Sheldon, le mani sui fianchi.

“Sheldon non ha appetito, non mangia da tre giorni, devo farlo vedere. Io lo so già che è un cane meteopatico, ma Sheldon non ci vuole sentire.”

“Nemmeno io mangio da tre giorni.”

“Devo portarlo subito. Fatti vedere anche tu.”

“I veterinari sono chiusi.”

“È un ambulatorio aperto ventiquattr’ore. Dirò al Presidente che Sheldon non mangiava.” Rise, ma sembrava un gemito.

“Tanto a te Sheldon non dice niente. Ci sono io a capo della baracca e forse per l’ultimo giorno.”

“Mi dispiace, Sheldon, è un momento difficile, in famiglia. Devo stare al gioco se non voglio perderli. Devo portare il cane dal veterinario e uscire di qui e dirti ciao, anche se fra un’ora arriverà il carico. Anche se mi perdo la faccia che farà il giovane Sheldon, che mi venga un colpo, quando gli sbatterai le manette sulle gengive.”

“Non fa niente, Sheldon, ti capisco.”

Sheldon continuava a ripetere che gli dispiaceva e intanto si infilava la giacca e prendeva le chiavi della macchina e la sua borsa. Si fermò sulla porta, si voltò. “Tu non ci credi ancora, alla storia della cantante jazz, non è vero?”

Sheldon sorrise e guardò per terra. “Certo che ci credo, Sheldon, vai a casa ora, muoviti. E magari se fai presto rientri nel gioco.”

Sheldon gli augurò in bocca al lupo e chiuse la porta piano dietro di sé, come se qualcuno dormisse.

“Viva il lupo” mormorò Sheldon. Si affacciò alla finestra giusto in tempo per vedere l’ultimo bagliore di sole affondare fra i grattacieli. Ecco il porto, laggiù, la sua placenta, ecco le navi mai troppo grandi, i containers, le gru nere contro il cielo, dita ossute che indicavano l’orizzonte illuminato da piccoli bagliori nel mare. Uno di quei bagliori era Sheldon. Sheldon il trafficante sano di cuore e ignaro del destino. Vieni avanti, Sheldon, sono qui. Sono solo. Basto io.

Squillò il telefono. Era Sheldon, il portiere. Sheldon si accorse di essere affezionato a Sheldon, quell’omone che forse da vent’anni gli telefonava per ogni cosa, gli annunciava tanto gli eventi epocali come le quisquilie con lo stesso tono pomposo. Per questo si stupì ascoltando la sua voce esitante, fioca.

“Signor Sheldon.”

“Dimmi, Sheldon.”

“Signore.”

“Cosa c’è, Sheldon?”

“La cerca un signore, si chiama Smith.”

“Castramaz…” urlò Sheldon nella cornetta. Voleva dire tante parolacce, tutte in una volta, ma si erano fuse in una nuova parola della quale avrebbe voluto correggere la pronuncia – che stupido tentativo – pur sapendo che non ce n’era il tempo. Una deflagrazione si accompagnò a un lampo che per pochi attimi cancellò i contorni di pareti, quadri, scrivanie, portaombrelli, cartine geografiche. Le finestre si trasformarono in coriandoli lucenti e dolorosi che volavano all’esterno del palazzo, nell’aria satura degli odori malinconici e strazianti della sera. Le schegge rimasero un attimo sospese, poi precipitarono verso il selciato, raccogliendo i bagliori dei lampioni e delle finestre accese.

Anche i pantaloni di Sheldon volarono e planarono sullo schienale della seggiola, perfettamente piegati, come se qualcuno li avesse preparati per la mattina successiva. Poi anch’essi presero fuoco.

 

 

 

 

 

Quattro pasticcini scomparsi

L’alba era uno spettacolo. Né malinconica, né chiassosa, né volgare, né dimessa, non limpidissima, ma nemmeno sfumata da quella patina che a volte avvolge il primo chiarore, quando l’estate si ritira senza un preavviso, o un saluto doveroso e memorabile.

Al suo cospetto tuttavia, i quattro pasticcini che riverberavano la prima luce del giorno erano gioielli di raro valore, che la natura non aveva saputo eguagliare. Diversi fra loro, ma accomunati da un fascino incomparabile, giacevano fra la polvere e i musi curiosi dei gatti e questo non faceva che esaltare la nobiltà della glassa, la densità del colore, l’evocazione di profumi che forse non emanavano più, ma che oltrepassavano le barriere del tempo e del decadimento, con la sola suggestione.

Catena da un po’ di tempo li aveva adocchiati, ma si era messa a dieta e per provare a se stessa che aveva forza d’animo aveva provato a fotografarli e a farne ingrandimenti, che appendeva nella camera da letto. Ogni mattina quando si svegliava guardava i poster, poi correva in giardino ad ammirare i pasticcini dal vivo. Erano come vecchi amici.

Poi, un bel mattino, i pasticcini non c’erano più. Catena venne presa da un’indicibile tristezza e i poster gli sembravano vecchie istantanee di familiari defunti che dall’alto del loro sorriso di cioccolato, resistente allo scioglimento fino a cinquanta gradi, le dicevano: ti ricordi quanto eravamo felici assieme, ti ricordi quando venivi a trovarci nella polvere, noi, leccati da lingue di gatto?

CATENA

 

Così Catena, che non aveva alcun rispetto per i carabinieri, dovette andare dai carabinieri a denunciare il fatto, per dare un sollievo al proprio cuore affranto. “Ho perso i miei avi” disse.

Il carabiniere, un tipo molto giovane, quasi un ragazzo, dai baffetti appena disegnati, le ricordò che tutti noi abbiamo degli avi, e che tutti noi in un modo o nell’altro li abbiamo persi.

“Ma quelli sono avi speciali, sono il mio passato, il mio desiderio, la mia guida verso il bene e la virtù!” protestò Catena e descrisse la base di pastafrolla a lunga conservazione, la crema pasticciera inattaccabile da ogni tipo di batterio esistente, le ciliegine sciroppate ricoperte da una vernice inalterabile, studiata dalla Nasa appositamente per le ciliegine sciroppate. Qualcuno aveva rapito i pasticcini e con essi amore, felicità, sogni.

Il carabiniere anziano, che pur essendo anziano sembrava molto giovane, come l’altro giovane, e aveva dei baffetti appena accennati come il suo collega, chiese una foto degli avi. Li guardò, li mostrò al collega. “Sembrano molto buoni” commentò.

“Non li ho mai assaggiati” ammise Catena. “Sono molto resistenti, praticamente immangiabili.”

“Un mio bisnonno fu mangiato dai cannibali” commentò il carabiniere veramente giovane. “Però i familiari riuscirono a riavere le ossa.”

“Tu sì che hai una tomba sulla quale piangere” disse sconsolata Catena.

“Non proprio. Pare che il cane le abbia trafugate prima della sepoltura. Erano nel granaio, insieme agli attrezzi, e la mattina dopo non c’erano più.”

“Proprio come i miei pasticcini” gemette Catena.

“Comunque” disse il carabiniere anziano lisciandosi i baffetti. Quello giovane e Catena lo guardarono. Catena si asciugava le lacrime con il dorso della mano, il giovane si lisciava i baffetti. L’anziano si alzò e si piantò davanti al giovane, con le mani dietro la schiena. “Quelli sono i miei baffetti” disse.

“No, sono i miei” disse il giovane.

“Li vedi, i miei? Guardali bene. Tu hai i miei baffetti.”

Il giovane chiese uno specchio. Catena estrasse dalla borsetta lo specchietto della cipria e lo mise davanti al viso del giovane, che sussultò.

“Quindi, cosa vogliamo fare?”

Il giovane arrossì e borbottò qualcosa, poi chinò la testa e si dileguò a passi rapidi. Il vecchio si avvicino a Catena e le richiuse lo specchietto. Si sentì un clic. “Ora che siamo rimasti soli, che ne dici, lo facciamo un saltino in pasticceria? Magari troverai un po’ di consolazione.”

In pasticceria, Catena si guardò intorno, i pasticcini giacevano inerti dietro teche linde, come tanti cadaveri ricomposti dopo una battaglia. “Questo è un cimitero, un cimitero!” gemette e corse fuori.

“Ha dei pasticcini vivi?” chiese il carabiniere vecchio al pasticciere.

“Certo che ne ho, sono molluschi molto dolci e saporiti, che in oriente vengono mangiati a merenda e che sopravvivono per ore, se non per giorni. Li ricopro di zabaione, si chiamano dolci trenini gialli e quando si spostano sul tavolo – non molto veloci, a dire il vero – sembra davvero di vedere una locomotiva.”

Il carabiniere ordinò qualche trenino, poi corse fuori, ma di Catena non c’era più traccia.

“Non so nemmeno il suo nome” mormorò con il broncio, passeggiando sul ponte. Guardò di sotto il fiume Guai e si immaginò di tuffarsi e scomparire per sempre per un amore non corrisposto.  “Si chiama Catena” disse un vecchio che sembrava giovane, e che stava per tuffarsi davvero.

“Catena?” ripeté stolidamente il carabiniere. Era affascinato dal nome, che evocava prigionia e forse ergastolo.

“Per lei, è per lei che mi sto buttando” disse il vecchio. Il carabiniere gli afferrò un braccio. “No, se c’è uno che deve buttarsi, quello sono io.” Ma il vecchio, che aveva l’aria di un barbone, insisteva e allora il carabiniere lo ammanettò e lo portò in caserma, dove trovò il suo giovane collega che a testa bassa, ancora rosso in viso, stava cercando un angolino in cui nascondersi.

Il carabiniere vecchio chiuse il barbone in cella, poi uscì per andare a buttarsi. Tornò sul ponte e mise una gamba fuori dal parapetto, poi si chiese perché mai si sarebbe dovuto buttare, visto che quella donna che aveva appena conosciuto non l’avrebbe mai saputo. Non solo, prima doveva trovarla, fare un po’ la sua conoscenza e poi se mai buttarsi, altrimenti il gesto sarebbe stato perfettamente inutile. Tornò in caserma, liberò il mendicante e gli disse che poteva andare a buttarsi.

“Non ne ho più voglia” disse il mendicante. “Hai per caso un panino con il lardo e la cipolla?”

Il carabiniere tirò fuori dal primo cassetto il suo panino e glie lo porse. Il mendicante scartò la stagnola e guardò dentro al panino. “È salame e aglio, ma lo accetterò ugualmente. Però ho una gran voglia di fare una lamentela scritta.”

Il carabiniere giovane si sedette al computer e registrò che il tal dei tali a richiesta di panino con lardo e cipolla aveva ricevuto salame e aglio e questo significava scarsa considerazione nei confronti del prossimo. Il carabiniere giovane stampò la lamentela, la fece firmare al mendicante, poi tutto rosso corse a nascondersi.

Sul pavimento, dolci trenini gialli, approfittando del portone aperto, infilarono lentamente l’uscita.