Descrivi il tuo gatto, o se non l’hai il tuo cane, o se non l’hai un tuo familiare

Parlerò del mio gatto, che si chiamava Furia, come il cavallo del telefilm.

Dico che si chiamava, perché ora non lo chiamo più,  non si può chiamare un gatto morto e sepolto.

Sepolto a dire il vero no, ma prima vi parlo di Furia.

Furia era proprio un bel gatto. Non era molto bello, ma si dice sempre così, proprio un bel gatto. Gli cadeva il pelo e si vedevano le ossa, ma gli animali che si amano sono proprio i più belli, anche se non è così, infatti il mio amico Gilberto fa paura a tutti, meno che alla mamma, che dice sempre che Gilberto è un bambino tanto dolce e tanto bello. A me Gilberto non fa tanta paura, perché io in famiglia ci sono abituato, agli spaventi.

gatto

Furia non era uno di quei gatti che dici accidenti, che gatto. Non mangiava topi, dormiva sempre, a volte non ci accorgevamo della sua presenza e lo calpestavamo, però lui non si lamentava mai, perché gli mancava la forza.

Eravamo una famiglia molto povera, al punto che mangiavo il martedì, il giovedì e il sabato, mentre la domenica si mangiava tutti assieme ed era una grande festa.

Un bel giorno, era lunedì e mia mamma mi chiama a tavola.

Oggi è lunedì, dico.

E lei: lo so bene, che è lunedì.

Sarebbe bellissimo mangiare di lunedì, dico io, però oggi è lunedì e io al lunedì non ho mai mangiato, almeno da quando sono passato dal biberon alle pappette.

Pensavo che mio padre fosse diventato principe, perché quando si è principi si mangia più o meno tutti i giorni. Quando l’ho visto ho capito che prima di diventare principe gli mancava qualcosa, tipo un’incoronazione o un bagno. Ma per me mio padre era ugualmente un principe, perché era lunedì e stavo per sedermi a  tavola. Sabato, domenica e lunedì. tre giorni di fila a tavola, la mia vita stava cambiando.

Sulla tavola, in centro, fumava un arrosto e tutti gli sguardi erano lì. Non esisteva più una famiglia, ma un leone che guarda una gazzella arrosto, o una tigre che guarda una zebra arrosto, solo che l’animale nel nostro caso era molto più piccolo.

“Che cos’è, chiedo.”

Se mi dicevano, un topo, lo mangiavo subito. Se mi dicevano che ne so, un lombrico gigante, lo mangiavo subito.

Invece mi dicono che è Furia. Mi sono messo a piangere, ho pianto tanto, ho pianto fino a che non avevo più lacrime, poi ho mangiato la coscia. Devo dire che era molto buono e se l’avessi saputo, che era così buono, anche in vita l’avrei trattato meglio. Dobbiamo ringraziare Furia, diceva mia madre e io ripetevo grazie, Furia, grazie, Furia.

E venne martedì e io ancora mangiavo e credevo che sarebbe stato così per sempre. Ma poi il mercoledì, a riprova che mio padre non era diventato principe, ho saltato il pasto.

Parlerò quindi del mio cane, che si chiama Cavallo. Si chiamava, anzi. Fino alla scorsa settimana faceva parte della famiglia ed è come se fosse ancora fra noi.

cane

Si chiamava Cavallo prima di tutto perché era grosso, molto grosso, poi perché sembrava un cavallo, poi perché faceva dei versi come un cavallo, al punto che a mia madre più di una volta è venuto il dubbio. Questo è un cavallo, diceva, ma mio padre a giurare che l’aveva portato via da un canile. Per cui alla fine sto parlando di un cane, ma se forse era un cavallo non cambia molto il senso della storia. Mio padre è uno sceicco, ho detto quando sono riuscito a mangiare per una settimana intera. In quella settimana però la mia famiglia non sembrava la famiglia di uno sceicco, la casa rimaneva piccola e sporca, se ne cadeva letteralmente a pezzi e mio padre usciva tutte le mattine per cercare lavoro. Dato che con il gatto era successa una cosa simile, dato che io mangiavo molto, ma da quel momento Cavallo non si era più visto in giro, ho chiesto se l’arrosto che non finiva mai era carne di Cavallo. Sì, come hai fatto a indovinare, mi ha detto mamma. Intuito, ho detto. La notizia di Cavallo non mi ha fatto piangere, questa volta, l’unico triste era il nonno perché quando avevo Cavallo gli andavo a cavalcioni, a Cavallo, e invece adesso toccava al nonno ricominciare a mettersi a quattro zampe.

Se non considero il gatto, se non considero il cane, entrambi assenti per motivi legati alla fame, parlerò del nonno, come indica il tema.

Il nonno lo chiamavamo West. Mi diceva sempre: vedi, dove sorge il sole, lì, è l’est, e dove  tramonta è west. Io dicevo che a scuola si diceva ovest, ma lui a insistere che era west, così a un certo punto pensavo che i punti cardinali fossero cinque e ho anche rimediato un brutto voto. Per questo motivo, perché tutti i giorni lui diceva che qui è est e qui west, lo chiamavamo West.

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A un certo punto, il nonno non si trova, né a est né a west. Per sicurezza abbiamo guardato anche a ovest, poi abbiamo scoperto che gli era crollato addosso un pezzo di tetto, in un punto che non è ovest o est o sud o nord o west, ma lassù dove non guardiamo praticamente mai.

Mio padre, che non era principe o sceicco, ha fatto una smorfia. Non so, una smorfia triste, perché mio nonno era suo papà. Non abbiamo i soldi per il funerale, ha detto.

E così ho mangiato per un mese tutti i giorni, senza che nessuno mi ricordasse che era martedì o giovedì. Senza pianti, senza tristezza. Il nonno era con noi, nella nostra vita, era dentro di noi, nessuno avrebbe potuto mai toglierci nonno West. Rimaneva il fatto che io non avevo più né Cavallo né nonno West per fare il cow boy, ma all’improvviso ero diventato grande e non mi importavano queste cose.

Mio padre finalmente aveva trovato da sgobbare e lavorava duro, mia madre badava alla casa. A tavola, ogni volta, prima di mangiare, facevamo un brindisi e ora che ero grande mi riempivo il bicchiere di vino. A Furia, dicevamo, a Cavallo, dicevamo. A nonno West, che ci ha fatto sognare.

 

 

 

 

 

 

Stanco morto

Mi sono coricato, a pezzi. Non vi succede, in questi casi, di avere l’impressione di piombare ad alta velocità verso il fondo?

Sotto di me non c’era il materasso, ma il vuoto e io scendevo, scendevo, via dalla giornata trascorsa.

Avevo appena preso una bella velocità in caduta libera, quando mi ferma una pattuglia. E d’improvviso mi trovo sul ciglio di una strada, una specie di via lattea, illuminata a giorno dalle stelle.

Mi chiedono i documenti. Sono in due e sembrano carabinieri, solo che sono in pigiama, con strisce rosse sui fianchi dei pantaloni, portano una cuffia da notte con la fiamma in fronte e al posto del lampeggiante dell’auto campeggia un’abat-jour. Non ho i documenti, dico, ero a letto e cercavo di prendere sonno. Non si va in giro senza documenti, dicono, e in più il limite del mondo dei sogni è cinquanta, mentre io stavo viaggiando a duecento.

Nel mondo dei sogni non ci si può fare male, dico.

Come no? Mi indicano un funerale. Un vecchio tirato sotto da uno come me, in sogno. Quel vecchio non si sveglierà mai più, dicono. Si stava tuffando in un oceano giallo quando è stato preso in pieno da un uomo che volava. Il vecchio mi passa davanti, è il mio vicino di casa. Mi guarda e mi fa l’occhiolino.

Io pensavo che nei sogni si potesse fare qualsiasi cosa. I militi scuotono la testa. Sono trecento cheeseburger, dicono.

Ma io non ho trecento cheeseburger. Allora mi dicono di vuotare le tasche e in effetti estraggo trecento cheeseburger. Avete visto, dico, che si può fare qualsiasi cosa?

Sbagliato, osservano. Quelli lì sono trecento hamburger. Non è vero che uno pensa ai cheeseburger e gli vengono i cheeseburger, che uno pensa di volare e gli va tutto liscio. Bisogna fare i conti con gli imprevisti e soprattutto con il mondo di fuori, quello dove vivi quando sei sveglio.

Come facciamo con i cheeseburger, dico. Volete un bonifico? Uno dei due spegne l’abat-jour e le strada diventa una discoteca, dove nessuno balla.

Che ne dite, ragazzi, facciamo due salti? Ma loro mi prendono gli hamburger e li mettono in un frigo portatile, poi salgono sulla macchina e rimangono fermi. Uno si mette a leggere “Confidenze” e l’altro “Il sosia”. Leggono aiutandosi con le torce.

Io rimango lì un po’, le mani in tasca, fissando gli orsi sul mio pigiama. A un certo punto uno degli orsi mi dice di andare, che si annoia. Così, timidamente, prendo a camminare. Poi, dopo qualche passo, mi volto indietro; i volti illuminati dei militi da notte sono immersi nella lettura.

Come spesso succede nei sogni, decido che ho voglia di tornare, lì non c’è nulla di interessante. Riemergo veloce verso il dormiveglia.

Al mattino mi hanno svegliato le sirene. Hanno trovato il mio vicino di casa morto nel letto, gonfio e fradicio, fra lenzuola bagnate nell’oro.

Ancor prima di prendere il caffè sono sceso sotto casa, dove c’è un negozio di articoli da spiaggia, e ho comperato un salvagente. L’ho gonfiato con la bocca e l’ho appoggiato sopra il letto.