Socrate e la Panda young

Ci sono cose che si capiscono e non si capiscono. Ci sono cose che si capiscono dopo tanto tempo e cose che si capiscono subito. Chi ha l’incommensurabile fortuna di possedere una Panda può capire subito tutto quello che sto per dire.

Anche l’Avvocato aveva una Panda e questo sta a significare che una Panda non è solo una Panda. Ovviamente sto parlando della prima serie, disegnata da Giugiaro Giorgio, figlio di artisti, pittori, infatti la Panda ce la vedo bene parcheggiata all’ombra di un covone di Van Gogh, o guidata da una thaitiana: una Panda firmata da Gauguin, con fiore sul solo retrovisore esterno permesso, quello sul lato guida. Se Giotto oggi dipingesse la fuga in Egitto sceglierebbe una Panda 4×4 o una Citroen Mehari? La domanda è oziosa.

La cosa che colpisce di una Panda è che a parte il volante e le ruote, nulla è curvo. Ha un carattere spigoloso. Sai che è una superutilitaria e te lo dimostrerà in tutti i modi, con estrema sincerità. Quando chiudi le portiere ti rimbomba nel cervello un rumore di metallo, senza trucchi e senza inganni, imbottiture, sostegni, siliconi. Il suo nudo corpo scheletrico e un po’ patito ti si offre senza pudore. Rimani a contatto con la natura, nel senso che dentro o fuori non noti la differenza. Eppure non le manca niente, a pensarci bene: il tachimetro, l’indicatore della benzina, le marce, persino un portaoggetti. I finestrini che si aprono con la manovella aiutano il sistema cardiovascolare e quando l’accendi ti accorgi che è una supercar: parte al primo colpo e non si spegne mai, lo sterzo è morbidissimo, basta non fermarsi mai. Prendi velocità e la sensazione è identica a quella di un charter sulla pista di decollo. Che emozione, ragazzi. Poi a un certo punto pensi davvero che abbandonerai la strada e viaggerai sopra le file di auto, e poi sopra gli alberi, dove non ci sono più segnali stradali e dove l’aria ti guida e non lo sterzo.

La cosa più bella di una Panda però è la guida su strade sconnesse, dove tende a rimbalzare, sollevandosi dal terreno. In curva poi, è uno spettacolo: deraglia, si direbbe, le ruote posteriori abbandonano la presa per un piccolo allegro balzo di lato. Il motore ha la caratteristica di parlare un linguaggio quasi umano: fischietta, mormora, canticchia, si schiarisce la voce, si lamenta, ma sempre con compostezza. A volte, in salita, fa il rumore di una lavatrice durante il risciacquo e tu mentre fuori piove ti accoccoli al volante e fiuti l’intimità di casa.

Lo spazio interno è come la cabina dell dottor Who: molto più grande di quello che sembri. Ci stanno dentro biciclette, mattoni, valigie, contrabbassi, peonie, nontiscordardime, pannocchie, legna da ardere, zanzare e zuzzurelloni.

Come una casa piccola, una macchina piccola è molto veloce da lavare e pulire. Come una casa piccola, le spese di condominio sono molto basse. Non esistono airbag, abs, non c’è nulla di elettronico tranne l’iniezione. Con una macchina così inoltre hai il vantaggio che quando sei con amici e ci si chiede con che macchina si va e tu proponi di andare con la tua, alla fine ti caricano sempre sulla loro, allora devi sorbirti la noia del confort, del suono ovattato, di un profumo alieno, molto diverso dal tuo arbre magique; devi sopportare una colonna sonora che mai corrisponde alle tue preferenze.

Il gioco più bello da fare su una Panda è quello del vecchio col cappello, cosa che su una Mercedes non ti riesce molto bene, lì puoi fare il Von Karajan che si infila le dita nei capelli, ma il vecchio che gira il volante cinque centimetri per volta, alternando le mani, con le braccia in grembo, è una cosa bella solo su una Panda. Così faccio Socrate, Socrate che va al lavoro di lunedì. Che ci va in Panda, perché ad Atene sono calate le iscrizioni e se non fosse per arabi e indiani e qualche cinesino non ci sarebbero più nemmeno le scuole. Deve spostarsi nel circondario, fra porci e galline, a raccogliere discepoli volonterosi.

Mi dicono, a me che faccio Socrate: guarda, se vuoi c’è una Panda, prendila su. Io che so di non sapere, figuriamoci se so cos’è una Panda, comunque sono volonteroso e dopo essere saluto sul tettuccio, entrato nel bagagliaio, scivolato sotto la scocca fra le ruote, mi sistemo davanti al volante. Ignorante, ma pur sempre sapiente, accendo il motore e parto. Gli altri guidatori, che sono ignoranti, ma non sapienti, dietro di me mi fanno gli abbaglianti. Va bene, mica vado nel fosso per farvi passare. Va bene, faccio i settanta su un’autostrada, ma fatemi prima calcolare quanto ci mette una pulce a coprire la stessa mia distanza. Il viaggio serve a questo: a pensare.

Camionisti rabbiosi mi stringono verso il ciglio, io li guardo da sotto il berretto, perché dicono che i vecchi col cappello sono pericolosi e a me piace tenerlo su apposta. E poi ai miei discepoli piace molto questo berretto, mi dicono che sembro il principe Harry senza berretto. Evidentemente questi guidatori da strapazzo se ne fregano delle dinastie e strombazzano con le scale cromatiche che hanno a disposizione, compreso il diabolus in musica. E io dico passate, passate e faccio segno con la mano e a volte abbasso il finestrino e agito il berretto. Passate, cosa vi trattiene? Perché siete così impazienti durante il viaggio, quando l’arrivo è solo un pretesto per il viaggio? E cosa farete, quando sarete arrivati? Avrà ancora un senso vivere?

Il momento più bello è quando faccio manovra per parcheggiare. Me la prendo comoda, mi metto di traverso sulla strada, provo e riprovo, faccio il perfezionista, tiro un po’ su di giri il motore, mentre dietro si fermano le code, che sono tra le cose più affascinanti di una strada, perché mettono a nudo l’impotenza. I miei discepoli si riversano sulla via: più a destra, sterza ancora un po’, mi dicono. Più piano, guarda dietro, che c’è un Mercedes, magari proprio quello di Von Karajan. Gira di più il volante, sterza bene, fino in fondo, mi dicono. E io, Socrate, con la lingua fuori per la fatica, il berrettino regale di sbieco, schiacciato contro la portiera, mi muovo piano piano, un po’ avanti un po’ indietro, ascoltando le invettive e le urla di incitamento. E quando scendo rimiro della mia Panda il colore blu lido.

Dopo il lavoro vado nella spiaggetta a prendere il caffè e guardo i gabbiani, se sono gabbiani, perché gli uccelli non li conosco molto bene, ma so bene cosa è un lago. Un lago è la vita che ti parla di ritorno, questo penso. È la tua coscienza vigile che ti schiaffeggia alla fine del giorno. Cosa hai fatto di bello oggi, mi dice l’acqua. Sei contento di te? Guardami, io sono la libertà. Sento le parole dell’acqua, perché ogni suono è parola, si tratta di fare attenzione. E l’acqua è così piena di suoni e di parole.

Vuoi salpare? Ti aspetto. Domani. O la prossima primavera. Guardami dalla riva durante l’inverno, quando nessuno ci fa caso. Ho tante cose da dirti, fra le nebbie leggere, sotto i lampioni accesi.

Il consiglio di Andrea Camilleri

Sono seduto su un paracarro di pietra, sul ciglio del sesto tornante, sotto l’ombra di un abete maestoso. Andrea Camilleri è coricato sull’erba, vicino a me e si sta pulendo gli occhiali. Io per gentilezza gli offro di sedersi sul paracarro, lui declina dicendo che i giovani hanno la precedenza. Visto che ho diritto di precedenza gli mostro il mio ultimo manoscritto, che si intitola “Ramanzina sui Pirenei”; gli svelo che si parla di un conflitto fra padre e figlio e che l’ho scritto mentre avevo la gamba ingessata, perché era la sola cosa che potessi fare. Da lì la decisione di diventare scrittore.

Camilleri legge pagine a caso, poi mi chiede se magari sono bravo a fare il cuoco, o la guida turistica. Di provare altre strade, che so, il tiro con l’arco, magari è una dote nascosta e nel caso si può praticare anche con una gamba ingessata.

Butto gli occhi a terra e vedo ai miei piedi proprio un arco, con una freccia. Mi dico che magari ha ragione. Scocco la freccia, che trapassa un ciclista in sella a una bici da corsa. Quegli barcolla, poi riprende la sua traiettoria. Camilleri mi dice di provare qualcosa che abbia a che fare con il mio io più intimo. Promettendo che gli darò ascolto, ma senza comprendere bene il significato di quel consiglio, salgo in moto e do gas. La ruota posteriore slitta sulla ghiaia e scaglia un sasso di ragguardevoli dimensioni proprio nel mezzo della fronte di Camilleri. Gli chiedo se sta bene, lui mi raccomanda di partire senza indugio.

scrittore fecondo

scrittore fecondo

Scendo in paese e leggo manifesti dove si invitano proprio quel giorno aspiranti aspiratori all’hotel Excelsior. Allora vado all’hotel e dico che sono un aspirante aspiratore. Mi dicono di aspettare in sala d’attesa. Mancano due ore e non è ancora arrivato nessuno. Poco dopo scende dalle scale una cameriera scarmigliata, urlando che il famosissimo aspiratore Guglielmo Hoover giace morto nella sua camera, con la testa infilata dentro un’abat-jour, la quale a sua volta è infilata in un armadio a muro. Arriva la polizia e pochi minuti dopo le attenzioni si concentrano su di me, che come aspirante aspiratore ho il movente e sono sul luogo del delitto. Il luogo del delitto mi è chiaro, il movente no, io dico che in realtà fino a dieci minuti prima non avevo niente a che fare con il mondo degli aspiratori e volevo fare lo scrittore e così dicendo mostro al commissario il mio manoscritto. Lui si siede sul divanetto, comincia a leggere e si estrania.

L’hotel Excelsior è il solo hotel del paese, quindi di lì a poco arriva anche Camilleri, ferito alla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Saputo che sono stato accusato, mi offre un alibi, dicendo al commissario che sono sempre rimasto con lui, al sesto tornante. Nel frattempo il commissario è arrivato a pagina ventisei del mio romanzo, dove si parla del padre che cammina a piedi sui Pirenei, seguito svogliatamente a pochi metri dal figlio. I due non si parlano fino a pagina ventinove, perché tengono il broncio. Il commissario piega l’angolo della pagina, chiude il manoscritto e mi discolpa all’istante. Però interviene di nuovo Camilleri, che mostrando la ferita in fronte mi accusa di tentato omicidio.

Subito vengo bloccato dagli agenti e portato in centrale, dove mi fanno mettere sul tavolo quello che ho in tasca: una gomma da masticare e un centrino di pizzo. Cercano di prendermi le impronte, io ne faccio una con la scarpa e loro contrariati mi strappano i peli degli avambracci. Poi mi fanno la doccia con gli spruzzini per i fiori e mi dicono che mi faranno la festa. Io non so di che festa parlino e comunque per principio non partecipo mai alle feste, che mi rendono nervoso, allora penso che se non sono scrittore forse posso essere un aspiratore. Ci provo e funziona, aspiro tutti gli agenti, poi mi precipito fuori dalla centrale. Arriva il ciclista trafitto, sta facendo il percorso contrario, la strada in salita verso i monti: lo butto giù di sella e affronto i tornanti. Mi raggiunge l’ammiraglia e il direttore sportivo mi comunica che non sto facendo un tempo degno di nota, allora abbandono la bici e mi siedo sulla panchina di un belvedere. Aspiro le nuvole e faccio tornare un sole basso, prossimo al tramonto; penso fra me e me che aspirare fa senz’altro parte del mio io più intimo ed è un’attività tutt’altro che disprezzabile, solo che Camilleri mi ha accusato e ora sono un ricercato.

Dopo aver passato una notte all’addiaccio, raggiungo la pensilina dei bus, per prendere il primo in partenza. Trovo lì seduto il commissario. Mi consegna il manoscritto e dice che ha passato la notte a leggerlo. Mi riferisce che è stata la cameriera a uccidere Hoover, il quale voleva aspirarla contro la sua volontà. Mi comunica anche il proscioglimento dall’accusa mossami da Camilleri, che aveva parlato contro di me in stato confusionale, quindi mi augura buona fortuna, si alza e se ne va. Io guardo per un po’ il mio lavoro, tolgo l’orecchio di carta alla pagina ventisei. Sento il rombo di un autobus che si avvicina. Salgo, guardo dal finestrino i monti con le cime coperte di nuvole che corrono. Quando il pullman riparte aspiro il manoscritto e chiudo gli occhi, ho bisogno di riposo.