L’invasione degli indigeni

Un soggetto per Paramount o per Warner Bros o per chi insomma sia interessato a fare film impegnati, ma anche d’azione, ma anche di disimpegno con un guizzo qui e là nel sociale e nella cronaca nera con risvolti umoristici e bellici, con un finale che può anche essere lieto, sebbene un po’ malinconico, dipende dai punti di vista.

Un gruppetto nutrito di indigeni invade un Paese, Duck, che a dire di tutti non è mai stato invaso.

Il gruppetto è nutrito nel senso che prima di partire è stato nutrito a sazietà, perché questi indigeni non portano mai provviste, quando vanno in spedizione. Mangiano fino a scoppiare, usando il sistema cammello, solo che la gobba viene sulla pancia. Quindi è più corretto parlare di gruppetto ipernutrito.

Quando gli indigeni invadono il Paese che non è mai stato invaso, lo trovano pieno di indigeni come loro, allora scoppia una violenta polemica su chi sia più indigeno, se l’invasore o l’invaso, ma a un certo punto sono tutti talmente indigeni che non si distinguono più fra loro. Allora il grande capo – in ogni tribù o società c’è un grande capo, anche se viene chiamato in modi diversi – ha un’idea geniale: decide di invadere la terra degli invasori: gli invasori non potranno invadere la loro stessa terra, così quelli che si troveranno sulla terra da cui era partito il gruppetto nutrito, saranno quelli che effettivamente erano stati conquistati. La cosa riesce, a parte un paio di invasori della prima invasione, Big Paul e Little Paul, che non avevano capito bene il meccanismo e che quindi in pratica erano tornati nella loro terra d’origine, perdendo lo status di invasori e tornando semplici cittadini.

A questo punto ci si accorge che è avvenuto uno scambio di territori e ci si chiede quale sia il senso dell’operazione, anche perché poi ciascuno deve abitare una casa non sua, mettere vestiti non suoi e stare insieme a un partner che magari non gli è molto simpatico. In particolare a Pig, il paese invasore, c’è un tipo che si chiama Indigent, che si ritrova a vivere con una donna bellissima, il marito della quale, partito a capo dell’originario gruppetto nutrito, aveva contratto un sacco di debiti a seguito del gioco del superenaocto, che consiste nel mettere in gioco la propria casa. Se vinci ne guadagni una, ma se perdi ne perdi due, la tua e quella del tuo parente più prossimo, indipendentemente dalla sua volontà. Non volendo tornare in patria, ma avendone nostalgia, Indigent si butta in politica e viene eletto grande capo. La prima legge è quella di chiamare il paese con il nome del suo paese d’origine, che ricordiamo si chiama Duck. Solo che il paese limitrofo non ha varato nessuna legge e ora ci sono due Duck. Torna una gran confusione, non solo, ci sono i turisti che spesso arrivano nel Duck sbagliato, il dépliant diceva spiagge da favola e invece si è a duemila metri. Accident, il grande capo del Pig originario, sotto la pressione della sua popolazione, che vuole un cambiamento, indice un referendum, al termine del quale si determina che il nome del paese sarà Pig, che poi era il paese d’origine del gruppetto ipernutrito di indigeni.

Ora, Accident, che aveva avuto l’idea di invadere Duck, è anche il marito della bellissima donna che sta con Indigent. Nel nuovo Paese ha avuto modo di recuperare soldi con i pizzi sui gestori delle seggiovie e ora vuole invadere il suo paese d’origine, che ricordiamo si chiama Pig, anche se Indigent ha voluto chiamarlo Duck. L’invasione non è molto cruenta, i due invasori della prima invasione, Big Paul e Little Paul, ancora una volta sono scappati in preda alla confusione, per salvarsi da un’invasione che in realtà non li interessava, mentre nel giro di una settimana Indigent e Accident firmano un accordo. Nessuno ricorda più le famiglie di appartenenza e nemmeno le terre, così Accident regala una montagna a Pig e Indigent regala un pezzo di costa a Duck. Alla fine scoppia un violento litigio, perché ciascuno reclama la donna bellissima, che però, si scopre, è fuggita con Big Paul, che nell’agitazione del momento l’ha caricata per sbaglio in macchina.

In un videomessaggio la donna si dice confusa e felice e sente che è nel Paese di Bird la sua nuova vita. Il fuggiasco infatti, invece di tornare a Duck ha seguito la voce del satellitare, che l’ha dirottato dove ci sono montagne e mari e colline e un grande capo che non ha nessunissima voglia di conquistare Paesi.

Quando Van Gogh dipingeva il cielo

Van Gogh fino a oggi 8 aprile è in mostra a Vicenza.

Cioè, lui di persona a Vicenza non c’è, ma i suoi quadri sì, e quindi sì, anche lui, se ti avvicini alla tela, se la respiri.

Il respiro della tela è un procedimento particolare che riporta in vita il pittore e non tutti lo sanno fare, però ci si può provare, perché come tutte le cose un po’ è predisposizione, un po’ apprendimento. Dopo un po’ che respiri, se ti viene voglia di tagliarti un orecchio, vuol dire che sei abile e stai resuscitando lo spirito del pittore.

Chissà se Van Gogh è mai passato per Vicenza. Con il corpo, dico. Penso che le colline gli sarebbero piaciute. Forse le ville palladiane un po’ meno, con quell’impostazione così classica e seriosa. Ma Vicenza è una città piena di fascino, anche se quando uno ci arriva telefona subito al suo gatto per sentire se stia bene.

vicentini magnagati

vicentini magnagati

La mostra.

L’azzurro e il giallo, luminoso e dorato, potrebbero essere i colori di un atleta nazionale medagliato, invece sono i colori più belli dell’olandese, forse i più utilizzati. I cappelli, le cipolle, le patate, i campi di grano, i cieli, gli abiti, le notti dai grandi occhi stellati.

Il suo mondo è fatto di teste grosse, nasi adunchi, zoccoli di legno, volti raramente belli, che conoscono solo fatica e miseria. I contadini con il braccio dietro il corpo forse stanno per gettare una manciata di semi fra le zolle, forse stanno caricando un pugno da rifilare al mondo. I sentieri rosa e i tronchi ramati come le cupole vicentine sono il mondo che vorremmo, che non sarà forse il nostro, ma che sicuramente esiste in un’altra galassia.

un'altra galassia

un’altra galassia

Così ho pensato che anch’io volevo essere Van Gogh e mi sono messo a dipingere le pareti della rimessa, che non è proprio la stessa cosa, giusto perché uso la pittura murale, e poi perché non potrei portare una rimessa in mostra alla basilica palladiana; d’altra parte è scomodo far venire i visitatori dentro la rimessa di casa, senza contare il prezzo del biglietto: cosa costa, una tariffa oraria per parcheggio al coperto?

Ho comperato anche un cappello come quello di Van Gogh, una pipa come quella di Van Gogh, un po’ di pennelli a onda, per fare le pennellate a onda, e predico qui e là, quando ho tempo, proprio come faceva lui, ma con scarsi risultati. Mi dicono che sono un imbianchino, che sono più bravo col pennello con le parole. Allora li porto nella mia rimessa e si ricredono: no, forse con le parole va meglio.

Sono fermamente convinto che nella vita bisogna avere dei miti, non solo nell’infanzia, ma anche nella maturità. Ho avuto tanti miti, Virgilio Lilli, Uto Ughi, Ernest Hemingway, Dino Buzzati, Glenn Gould, nel senso che volevo essere come loro, dopo di che non importa se si dipinge un garage o se si suona un pianoforte Casio, è la meraviglia del possibile che spinge il mondo. Vincent, quando frequentava i musei parigini, non sognava di entrare un giorno in un museo? Ha fatto di più, è entrato dentro di noi, come tutti i miti che ci portiamo dentro e che riemergono talvolta con violenza, dopo periodi di quiescenza di durata variabile.

“Sono afflitto, ma sempre lieto”, diceva lui e insieme a lui suore, testi sacri e innumerevoli miscredenti e atei, perché l’afflizione si accompagna alla letizia, sono sposati da sempre. Le opere del pittore non sono letizia e afflizione? Non lo è, la nostra vita? Se entri nella mia rimessa, non pensi di trovarci letizia e afflizione, giallo e azzurro, campi e cielo, fra i raggi obliqui del sole sulle pareti, fra i cacciaviti consumati, le chiavi inglesi, il legno di pino fissato in malo modo a spicchi di parete? Non pensi che anche Van Gogh oggi dipingerebbe spesso dentro una rimessa? Un posto fra i più intimi, dove genio e manualità trovano la loro piena ragion d’essere.

Allora la mia battaglia personale è: torniamo al pennello e al colore, lasciamo nel cassetto le macchine fotografiche e i cellulari, smettiamo una buona volta di delegare ai loro occhi di vetro la cattura dello spirito del mondo, usiamo i colori, spalmandoli come il gesto più sensuale di questa terra, per nutrire i nostri mondi personali.

Eh, ma io non sono pittore, dici. Va bene, fai cromoterapia, spremi il tubetto e tutta la tua ignoranza, spalmalo dove vuoi, ma non sui denti. Ti assicuro che nulla è più appagante del colore, perché è fatica, manualità, perché ti svuota dentro e alla fine le tossine se ne sono andate.

È vero anche che Vincent tossine o no poi si è sparato. Ecco, ti ho svelato il finale. Sì, un dramma, ma non è necessario che ti spari per essere come lui, almeno finché non sarai bravo come lui. Per lui il colore era la cura migliore, anche se poi non ha funzionato fino in fondo, ma non esiste cura che funzioni per tutti e che funzioni sempre. L’arte rimane una cura delle malattie, un calmante dei nervi, una forma dell’io che viene strappata dal profondo e viene resa palpabile e concreta, anche se poi, guardando quell’io fra le pieghe del colore, si stenta a riconoscerne le implicazioni.

pipa di Van Gogh, mattoni miei

pipa di Van Gogh, mattoni miei

Io nel mio garage ho appeso il cappello di Van Gogh, ho appoggiato su una mensolina la pipa di Van Gogh, ho preso il pennello di Van Gogh e ho cominciato a dipingere, ma io sono io e ho disegnato solo mattoni, murando grano e cielo, per non sentirmi troppo triste. Mi sono riempito i polmoni dell’odore dei colori e poi sono andato a passeggiare dentro la primavera, pensando cosa vuol dire morire da giovani, dopo una vita travagliata. E ho deciso che sì, esistono sentieri rosa in altre galassie, dove i pittori non muoiono presto e hanno tutto il tempo necessario per dipingere e guarire.