Covid, prezzo e qualità

Devo, mangiare, altrimenti morirò.

Poi penso beh, settantasei chili sul gobbone non ti portano alla morte per denutrizione, non immediatamente, almeno. Il fatto è che da un po’ di tempo ho la sindrome della dispensa vuota; quando ho davanti a me un fine settimana me lo figuro lungo un annetto; tra il venerdì e il lunedì passano due giorni divisibili all’infinito e io come farò ad affrontare un infinito?

Semplice, si va a fare la spesa, si va a riempire la dispensa. Lo so, i supermercati nei fine settimana sono affollati, dieci persone distanti un metro fanno dieci metri e così via; questo vuol dire, a colpo d’occhio, che a quest’ora per entrare al supermercato devo posizionarmi in canonica, alla distanza di un metro dall’ultimo. Senza considerare che quando arrivi e chiedi chi sia l’ultimo, tutti ti guardano male, perché nessuno si ricorda veramente se sia arrivato prima o dopo un altro.

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Talvolta scoppiano risse fra uomini mascherati, così evito, perché conosco un trucco. Il trucco è andare al Covid, minimarket aperto 24 h 24. Andare alle tre di notte, quando tutti dormono profondamente.

Mi preparo come se dovessi fare una rapina: mascherina, pistola ad acqua, ma caricata con cloro e amuchina, una scatola contenente 100 guanti di lattice, copricalzari igienici, copricapo usa e getta, grembiule usa e getta, soldi usa e getta. Passo davanti allo specchio e per poco non mi viene un infarto, non mi riconoscerebbe nemmeno mami.

Vado in bicicletta, perché ho bisogno di moto. Cioè sia di movimento, sia di motocicletta, che non ho i soldi per comprare. Vengo fermato da una pattuglia della polizia, che mi dice dove vado. Vado a fare la spesa, dico e loro vogliono sapere come faccio a dimostrare che devo fare la spesa, allora tiro fuori la borsina del Covid. Ah sì, ochèi, dicono, ma quella mascherina… lo sa che il volto deve essere identificabile? Allora estraggo una nuova carta di identità, dove ho fatto mettere una foto di me con la mascherina. Mi guardano, poi guardano la fototessera. Si consultano. Nella fototessera la mascherina è azzurra, mi dicono. Lei ha una mascherina rosa. L’ho appena cambiata, dico.

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Rimangono dubbiosi. Mi chiedono se alla fine della spesa passerò ancora di lì. Certo, dico. Allora mi suggeriscono che al Covid c’è il cioccolato alla banana split con dentro uvetta e prezzemolo, se per piacere compero due stecche per loro, perché la notte è lunga e a un certo punto viene un vuoto di stomaco e di affetti.

Il Covid ha un parcheggio piccolo e quadrato, in pendenza; un carrello stracolmo sta fuggendo in solitudine fuori dal cancello, verso il centro della strada. Sono parcheggiate macchine in numero considerevole, appartenenti a persone che hanno pensato che alle tre l’ora è più propizia, ma non mi faccio scoraggiare. Qui non c’è la coda con la distanza di un metro, un po’ per evitare le risse, un po’ perché al Covid non vanno tanto per il sottile, un cliente è un cliente, ci mancherebbe di farlo aspettare al freddo.

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Per entrare al Covid si salgono le scale e sul muro di fianco è disegnata una scala mobile, così uno anche se fa fatica e ha il batticuore ci pensa di meno. Sono appesi i manifesti delle pubblicità della famosa campagna di marketing, connubio fra prodotti e personaggi: Giovanni Iceberg, Mago Perino, Totano Mascherato, che a me personalmente non fanno impazzire, come quello slogan ormai di qualche anno fa: “al Covid entra anche Re Mida”, che sinceramente non ho mai capito. Per fortuna adesso campeggia nelle pubblicità il tormentone “Covid, prezzo e qualità”, che indubbiamente ci sono, ma son si sa a quale livello. Si entra nel màrchet con aria circospetta, perché la legge della sfiga vuole che alle tre di notte sia molto probabile incontrare un amico che non vedevi da tanto tempo e che ti butterà le braccia al collo. Ma l’amico o è morto o fa parte di quelli che dormono profondamente o sta giocando in garage con i modellini degli aerei, tanto per elencare i miei tre amici che una volta mi erano più vicini. In questo màrchet è talmente raro vedere dei clienti che i sottaceti portano la mascherina per paura delle persone. La cassiera vive lì, come se niente fosse, avrà settant’anni e anche lei sta lì 24 h 24. È anche la sola dipendente, per cui bisogna avere pazienza.

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Nelle corsie ci si studia. Ti muovi quando l’altro si allontana, se retrocede retrocedi e se sei circondato, se dietro di te c’è un altro, ti butti nello scaffale dei biscotti, aspettando che il pericolo sia passato. Quando si guardano i prodotti c’è un certo nervosismo, perché ci si ferma non dove occorre qualcosa, ma dove non c’è nessuno, cosicché uno prende quello che trova nel posto in cui si trova e a casa si accorgerà di aver fatto una spesa completamente sbagliata, pur avendo mantenuto la corretta distanza di sicurezza. Inoltre non hai il tempo di controllare i prezzi, prendi su e speri.

Laggiù c’è uno che per starnutire si toglie la mascherina

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e tutti intorno a me fanno oh! Non passeranno mai di là, che pure è la zona fondamentale delle verdure e della carne; rimangono lì immobili a tirare giù dallo scaffale due etti di bamboline similbarbie e solo cinquanta grammi di Gormiti, che notoriamente sono più cari oltre che indigesti.

A un certo punto mi viene in faccia qualcosa e urlo, pensando che sia il fantasma del mio amico morto, che mi salta con le braccia al collo. Che se avessi un minimo di raziocinio penserei che un fantasma non è portatore di virus. Invece è la biancheria della cassiera, appesa ad asciugare. Sfia affenfo, giovanoffo, mi dice la donna, che in serata ha messo la dentiera a bagnomaria. Dormicchia dentro lo scaffale dei disinfettanti, che è vuoto da tempo. Non dorma così, le suggerisco, le verrà il mal di schiena. Mi risponde che la notte prima ha dormito al posto delle pizze surgelate, che sono due settimane che non arrivano, ma le sue ossa non sopportano più il freddo. Però lei si è organizzata bene, ora ha messo un materassino gonfiabile e già che c’era anche un ombrellone. Alza le spalle sorridendo, come a dirmi che la sua vacanza ormai è lì, sempre lì.

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Il nemico arriva, devo procedere. Una piccola schiera, li vedo laggiù, sono brutti, sporchi e cattivi e carichi di acquisti, un concentrato di pandemia ambulante. Devo pagare subito, mi precipito alla cassa. Buonanoffe, mi augura la donnina, una volta riscosso un patrimonio.

Rifaccio la strada dell’andata e incontro di nuovo la polizia. Sono quello del cioccolato, dico. Sono raggianti. Apro la borsa della spesa e rimango di stucco: cosa accidenti ho comprato? Dico ai poliziotti se per caso non hanno bisogno anche di assorbenti e smalto per unghie. Loro forse travisano, Mi guardano molto male, allora consegno il dolcetto e dico che non voglio i soldi e scappo e intanto che pedalo penso cosa può farne un maschio di assorbenti e smalto per unghie. Va be’, assorbenti è presto risolto, ci ricavo delle mascherine nuove. Ma lo smalto, cosa me ne faccio dello smalto?

E questo pensiero me lo trascino fino a letto, fino alle porte del sogno.

Limousine

L’insegna dice che Noè costruisce barche.

Su “&flli” è tirata una riga rossa, perché sono morti in uno scontro fra barche durante una gita. Noè adesso si fa aiutare da un indiano e da un cingalese, che sono un po’ refrattari, ma molto volonterosi. Ha in essere delle commesse per il polo Nord, dove spediscono barche di ghiaccio, dentro enormi frigoriferi; inoltre fa barchette di carta per il centroamerica, e poi barche senza vela, in pratica delle bagnarole, solo che “barche senza vela” suona meglio, costano quasi come barche a vela.

Noè è sempre malinconico, pensa spesso ai suoi figli, però dice dentro di sé che comunque l’azienda non sarebbe andata avanti per molto; uno spendeva i soldi in donne, l’altro in automobili, mentre l’indiano e il cingalese pensano solo a lavorare, fanno tutto quello che gli dici, loro sono convinti che il lavoro nobilita l’uomo, ma soprattutto lo fa sopravvivere. Infatti hanno degli stipendi da fame, ma la fame se non altro è sintomo che sei vivo.

Un bel giorno arriva uno su una limousine, l’autista apre la portiera, ma non si vede nessuno. Passa qualche minuto, poi scende un tipetto piccolo, grasso e spaventato, che non riusciva a trovare l’uscita. Noè dice al cingalese, vai da lui; il cingalese dice al tipetto che le assunzioni per il momento sono chiuse, allora l’ometto lo calpesta, poi e si presenta da Noè e gli dice di allontanarsi un po’. Noè indietreggia. Ancora un po’ dice il tipo, poi estrae un sigaro lunghissimo e se lo fa accendere da Noè perché lui anche se avesse il braccio di Tiramolla non ci arriverebbe.

“Che sigaro strano” commenta Noè. “Non deve essere molto comodo. Come mai così lungo?”

“Perché ho una limousine” dice il tipo. Intanto il cingalese si è rialzato, si scuote di dosso la polvere e torna confuso al suo lavoro, che consiste nel separare le assi lunghe da quelle corte, solo che adesso che ha visto il sigaro non ha più i parametri per capire se un’asse deve considerarla corta a prescindere, oppure se, pur lunga, è comunque corta rispetto a un’asse lunghissima e così rimane lì in piedi a bocca aperta.

“In cosa possiamo servirla?” chiede l’indiano, che non sa bene cosa significhi, ma che vuole mettersi in luce dinnanzi al suo principale, con la segreta speranza che Noè un giorno l’adotterà e gli lascerà l’azienda in eredità.

“Vorrei ordinare una limousine d’acqua.”

Il cingalese e l’indiano si scambiano un’occhiata e alzano le spalle. “Gassata o naturale?” chiede l’indiano.

“Uno yacht, intende?” domanda a sua volta Noè, che non è in grado di costruire uno yacht e se è per quello nemmeno la maggior parte delle imbarcazioni che richiedano più di tre unità di forza lavoro.

“No no, proprio quella limousine” dice l’ometto indicando la sua macchina. “Voglio che la facciate galleggiare. Non mi importa della spesa. ”

Il cingalese, che vorrebbe fare anch’egli bella figura, non per venire adottato, ma per puro spirito di emulazione, si para davanti all’ometto, cioè alla distanza di un metro e mezzo, per evitare di scottarsi il naso. “Lo sappiamo tutti che le macchine non galleggiano.” L’ometto lo calpesta.

“Io sono un artista” dice Noè. “Porti dentro la sua limousine, la renderemo acquatica.”

L’omino, che comincia ad avere problemi ai polmoni per la quantità di fumo che sta inalando, ordina all’autista di portare la macchina nel cantiere di Noè. Quando sta per andarsene, ci ripensa e torna indietro. Il cingalese scompare in tutta fretta.

“Ho un problema” dice il cliente. “Ora sono a piedi.”

“Se vuole le presto una barca di cortesia.”

“Abito in collina.”

“Faccio venire un’altra limousine” dice l’autista.

“Non ho un’altra limousine” gli ricorda l’omino. “Non sapete se qui vicino c’è qualcuno che vende limousines?”

L’indiano a questo punto vorrebbe farsi bello, allora propone di portare a casa il signore col risciò. Il signore lo guarda davvero molto male e gli ricorda di essere stato partorito in una limousine e dunque fino alla morte si sposterà solo su limousines, per onorare la povera mamma, che a onor del vero sta benissimo, anche finanziariamente, ma è il pensiero che conta.

“Io ho un risciò limousine” dice l’indiano e gli mostra un lunghissimo risciò con otto ruote, dentro ci sono divani, piano bar e tutto. Lo fa salire e lo porta in collina.

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Quando arrivano l’indiano è prossimo al collasso cardiocircolatorio, ma fa finta di nulla. L’omino scende e lo ringrazia.

“L’arte di Noè è di altissimo livello, mi aspetto un lavoro ben fatto, ragazzo. Ci si vede fra un mese.”

In effetti Noè è già al lavoro. Sta girando intorno alla macchina e il cingalese fa altrettanto, ma per spirito di emulazione; un asino o una limousine per lui sono la stessa cosa, mezzi utili al movimento. Noè ordina al cingalese di salire in macchina, perché vuole provare la limousine. Non hanno fatto duecento metri, che all’uscita da una curva cieca si scontrano con il risciò dell’indiano, che stramazza al suolo. Noè e il cingalese scendono a guardare.

“Cos’è che ha sulla faccia?” dice Noè.

“Una mascherina per l’ossigeno.”

Del risciò non rimane che un mucchio di pezzi. Noè li sistema a bordo strada, mentre il cingalese carica l’infortunato in macchina.

Quando rinviene, l’indiano si guarda intorno e crede di essere in paradiso. Rimane a bocca aperta, solo che non si vede, perché ha la mascherina.

“Ti piace?” dice Noè.

No, pensa l’indiano, non sono in paradiso, sono stato adottato, la prima cosa che farò quando tornerò in cantiere sarà quella di prendere un pennello e riscrivere la parola “figli” accanto a Noè.

Lui per diritto quasi naturale, il cingalese per diritto acquisito.

“Un giorno le macchine viaggeranno tutte nell’acqua e nel cielo e non ci saranno più strade” sentenzia Noè. Meno male, pensa l’indiano, che vorrebbe segretamente l’abolizione dei risciò, ma non lo dice a voce alta per non essere estromesso dalla famiglia d’origine, con la quale comunque non ha contatti da trentacinque anni, in pratica da quando aveva un anno di vita.

Arrivano al cantiere. Noè scende soddisfatto e si guarda intorno. Poi allunga il braccio. “Guarda – dice all’indiano – tutto questo un giorno…”

L’indiano si toglie la mascherina. “Sarà mio?”

“No. Tutto questo un giorno non ci sarà più.”

“Proprio come le strade?”

Noè non risponde e si rinchiude nel suo studio a progettare la limousine d’acqua.

“Ho sentito bene? Non ci saranno più le strade? Davvero?” chiede il cingalese all’indiano.

“Così pare” risponde l’indiano, abbacchiato per i dubbi che gli affollano la mente.

“E io come farò a tornare a casa?” dice il cingalese.

Allora l’indiano gli dice di non preoccuparsi, che il giorno in cui non ci saranno più le strade non ci saranno più nemmeno loro, come persone. Il cingalese rimane ancor più proccupato, perché se non ci saranno più le strade, e se non ci sarà più lui, fatti due conti a casa non ci potrà più tornare. Da una scatolina di latta tira fuori i soldi che sta mettendo da parte per tornare a casa, li conta. Ci vorranno due anni di lavoro per comprare un biglietto.

“Fra due anni ci saranno ancora le strade?”

“Penso di sì” dice l’indiano. “Ci saranno anche gli stop, i semafori, cose di questo tipo.”

Partirò al più presto, allora, dice il cingalese. Dovrai andare in aereo, dice l’indiano, alla fine cosa ti serve a fare una strada? Ma il cingalese rimane fermo nella sua idea, perché anche in cielo ci sono strade e nessuno sa quanto potranno durare ancora.