Fate la nanna coscine di pollo

Mi viene incontro il suono dolce di una chitarra acustica.

È una ninna nanna. Due genitori neri cercano di tener calmo il bimbo molto piccolo che deve fare un esame in ospedale, una risonanza forse.

Sarà che lavoro da molte ore, quel suono mi mette addosso un sonno potente. Vado a prendere un caffè alla sala ristoro, ma nulla cambia, la ninna nanna mi fa cadere le palpebre. Mi siedo accanto ai neri. Il bambino mi guarda con gli occhioni spalancati, mentre io lo vedo per intero, poi mezzo, poi solo una piccola riga color della sua maglietta rossa, poi più nulla.

Quando mi sveglio sono in una stanza anonima, che non è un ambulatorio e non è casa mia. Al mio fianco i due genitori neri mi stanno guardando. Quanta nanna hai fatto, mi dicono.

Grazie per l’ospitalità dico, ora devo tornare a casa.

“Com’è che ti chiami” mi dice la mamma.

Arnaldo Fabio, dico.

Bene, Arnaldino Fabietto, questa è casa tua.

Dico che si sbagliano, che non è casa mia. Sì che è tua, dice il papà. Sei o non sei il nostro bambino?

Allora mi viene in mente il loro vero bambino, quello con gli occhioni spalancati.

Dov’è vostro figlio, dico.

Sei tu!

No, quello con la maglietta rossa, dico.

Ah quello, dice la madre. Non voleva dormire. Ma tu dormivi, così abbiamo preso te.

Faccio gentilmente notare che è un sequestro di persona e che io in qualità di figlio sono comunque più vecchio di loro.

Vediamo cosa si può fare, dicono entrambi, e mi danno pacche sulle spalle come per tenermi tranquillo o forse per farmi fare un ruttino. L’età non importa, mi dicono, importa l’amore.

Sì, ma il vostro bambino dove l’avete lasciato.

Mi dicono che quello non dorme mai e che quindi conviene avere una bambino un po’ più vecchio, ma che non fa capricci. Mi lusingano con il biberon; io preferisco un biglietto da cento, poi però mi accorgo che la vita in culla non è così bella come dicono e dopo poche ore restituisco i soldi e mi licenzio senza preavviso.

Rimani, dice la madre, ti faccio una bella pappetta con i plasmon.

Invece io mi fiondo su un taxi e raggiungo l’ospedale. Chiedo del bambino. L’hanno preso su, l’hanno adottato, dicono. In effetti una coppia bianca si sta allontanando con il bambino nero, che dorme beato. Forse avere genitori bianchi fa fare sonni migliori ai bambini neri; può essere una teoria, tanto le teorie non fanno mai male.

Però non è più una teoria, quelli se ne stanno andando col fardello.

Li chiamo, si fermano, si voltano. Li ho chiamati signori. Sono signorili.

In quel mentre arrivano i neri, vedono il loro bambino addormentato e lo reclamano.

I signori signorili non vorrebbero, perché ci si sono già affezionati.

La mamma nera allora suggerisce ai signori di cercare sul cellulare la ninna nanna delle coscine di pollo. Poi strappa il bimbo nero dalla nuova famiglia. Andiamo, Al, dice al padre. Il padre si chiama Al, ora lo sappiamo, ma non è poi molto importante ai fini della storia, né lui né il nome. Lui non ha fatto altro che seguire la moglie per tutto il tempo.

L’uomo signorile interviene invece in modo deciso. “Datti da fare, Brenda.”

“In che senso” dice Brenda.

“Con le coscine di pollo.”

Dopo un breve battibecco sulle coscine di pollo e sulla loro utilità, Brenda accende il play. “Fate la nanna coscine di pollo, la vostra mamma vi ha fatto un gonnello…”

Io vedo Brenda che sorride, poi mezza Brenda, dietro le palpebre pesanti, poi basta.

Mi risveglio a casa dei signori signorili. “Arnaldone Fabiotto” mi dice l’uomo, una volta saputo il mio nome. “Sei contento di rimanere con noi?”

“Ti sbriciolo i plasmon” dice Brenda. “Te li sbriciolo tanto bene. Guardati, che tesoro che sei. Non è vero, Johnny, che è un tesoro?”

 

 

Lei non sa chi sono io

Alshiro lavora in un call center, anche se ha sempre sognato di fare la rockstar in una band underground.

Alshiro mangia nel call center e dorme nel call center, sotto la scrivania, perché c’è la crisi degli alloggi.

Alshiro subisce mobbing dal suo capo, ma è giovane e ottimista e sogna di fare mobbing nella sua band underground, un giorno.

La compagnia in cui lavora si chiama AZ, perché vende di tutto, dalla A alla Z.

Alle 9, 03 gli telefona un cliente infuriato, perché il suo divano a due sedute di pelle di capra girgentana non è ancora arrivato e sono passate tre settimane e gli ospiti devono sempre stare in piedi. Il cliente ha un bel dire che lì in quell’angolino ci dovrebbe stare un divano, gli ospiti lo guardano con l’aria di chi non ci crede fino in fondo.

“Ci saranno dei ritardi nei traghetti, mi faccia verificare” dice Alshiro.

“Non faccia il buffone – dice la voce – come si chiama, lei?”

“Alparo” dice Alshiro.

“Bene, Alparo. Lei non sa chi sono io!” Alshiro non risponde, attende che l’uomo si riveli. Trascorrono secondi silenziosi. L’uomo sbuffa, balbetta. Pronuncia sillabe come ma, mi, so pre, di, e tutta la serie delle preposizioni articolate.

Intanto Alshiro ha rintracciato sul terminale la spedizione. Comunica all’uomo che il suo divano si trova in un deposito di Reggio Calabria.

“Reggio Calabria! Qui siamo impazziti, totalmente impazziti. Nel mio studio ci vengono persone importanti e io devo dire che non ho nemmeno un posto per farli sedere. Ieri è arrivato quello scrittore, come si chiama…”

Alparo, il capo, ha detto ad Alshiro che bisogna interagire in modo costruttivo con i clienti. “Volo? De Carlo? È italiano?”

“Quello che ha scritto Un amore.”

“Liala?”

“In ogni caso mi sto rovinando la reputazione. Nel mio campo non è permesso. Lei mi capisce, Alparo? Mi pare di no.”

Alshiro, per stemperare la tensione, gli chiede se il campo di cui si parla è quello dell’editoria. L’uomo torna a sbuffare, a sospirare. Sono tanti i campi, dice, così tanti che non è possibile ricordarli tutti. E comunque campo o non campo il problema è il divano, che indipendentemente dal campo fa sedere le persone. Ho comperato tante cose da voi, dice l’uomo, ma non mi è mai capitata una cosa simile. Cosa stanno facendo, stanno ancora uccidendo la capra?

“Non si deve preoccupare, telefono al deposito, poi la richiamo.”

“Dite sempre così, voi, richiamo, richiamo, e poi non richiamate mai. Sono stufo dei vostri richiamo, io voglio una risposta e subito, sto al telefono fino a quando non ho una risposta. Forza, dunque. Attivi il suo collega di fianco, gli faccia telefonare al deposito. Io sto in attesa e non mi nuovo di qui.”

Alshiro tenta di recuperare la pratica, ma il terminale si è bloccato. Succede sempre così con i clienti arroganti. Chiede nuovamente il nome, scusandosi per l’inconveniente e incolpando un server in Olanda, anche se sa che è perfettamente inutile.

L’uomo sbuffa, impreca piano, emette sillabe a casaccio. “Mi sente? Mi sente bene?”

“Perfettamente.”

“Allora apra bene le orecchie. Io non so chi sono io.”

Solo allora la pagina del terminale si aggiorna. “È partito. Il divano è appena ripartito. Non è una buona notizia?”