Informazioni su Roberto Stradiotti

studi classici, bonsaista della domenica

Cuochi solitari

Racconta a quelli di giù, quelli a livello del mare, o persino sotto, che esistono posti bellissimi, che nemmeno immaginano.

Racconta che a 2037 metri sopra il livello del mare ci sono io. Quando apro la finestra vedo il cielo. Né tetti, né strade. E molti che fanno il mio mestiere hanno scelto come me: di cucinare ad alta quota.

Se quelli di giù hanno fame, e sono spiriti liberi, che vengano pure. Ci sono una strada nel bosco e una parete di roccia, e poi un sentiero di sassi, stretto come i tuoi piedi, che sembra piano, ma non arriva mai. Non è nulla, tutto questo, al confronto del cielo che si avvicina. E se uno arriva fin quassù, se rimane vivo, intendo, oltre alle parole degli spiriti – perché qui ti parlano – può sentire il profumo della mia specialità, la nuvola di polenta con agave trifolata.

Non che io sia nato quassù, ho abitato e lavorato a Milano e Parigi, New York e Toronto. Poi un bel giorno sono uscito di casa e respiravo male e quando camminavo sotto un grattacielo mi mancava il fiato. Poi, quando entravo in un parco, tutto passava. Ho preso medicine omeopatiche, droghe, mi sono lasciato infilzare dagli aghi cinesi, ho cercato di uscirne con l’ipnosi. Niente. Poi mi è venuta la claustrofobia, poi mi sono venuti gli attacchi di panico, poi l’ipertensione, la tachicardia, un principio di sordità.

Quelli di giù morivano come mosche, per mali sconosciuti e fulminanti. Per finire l’aiuto cuoco si è annegato nel minestrone perché un cliente era rimasto scontento della sua soupe. E così mi sono detto che era troppo, che dovevo cambiare aria.

Non avevo idea della meta, ho camminato per sessantadue giorni, quattro ore e venti minuti, con due o tre padelle sulla schiena, lo stretto necessario. Me le sono portate su durante l’arrampicata, mani nude sulla roccia, e se non fossi riuscito ad arrivare in cima, lontano da quelli di giù, tanto valeva che morissi anch’io.

E invece ci sono riuscito e di colpo ero guarito. Sentivo un fruscio lontano cento metri, il cuore batteva così lento che avevo paura che si fermasse, non avevo più traccia d’asma, nemmeno con il polline, con la polvere, con il detersivo per piatti. Non era bello ricominciare?

Da allora nel mondo di giù non ci sono più tornato. Il mio ristorante ha trenta posti e poco distante ho predisposto un piccolissimo rifugio. La vetrata della sala guarda a est, quindi si può fare colazione guardando l’alba. Scalatori professionisti mi portano le forniture. Non ci sono abitazioni, non ci sono chiese, si può dire che sono un cuoco prossimo al cielo e i miei piatti risentono della leggerezza dell’aria.

Ho pensato per settimane al nome del ristorante, poi l’ho chiamato Ernesto, che è il nome del ragazzo del minestrone e attenua la mia vocazione di cuoco solitario, il più alto del mondo (parlo di alta cucina in altitudine).

Puoi dire a quelli di giù che se riusciranno ad arrivare fin qui, non dico che capiranno il senso della vita, ma avranno modo di ragionare su molte cose, perché il tempo qui si dilata. È facile che una colazione diventi pranzo, poi cena. Arrivano spesso tempeste di neve, temporali improvvisi e si rimane prigionieri. E a questo punto uno capisce se appartiene a quelli di giù.

Psiconauta

Solo uno che eleva al quadrato il proprio nome mi può capire. Io da te non voglio testi o pieghevoli, ma il pensiero che sei uno scrittore ombra in un certo senso mi rincuora, tu viaggi molto con la mente, forse mi potrai capire. E io ho bisogno di parlare con qualcuno.

Anch’io sono uno che viaggia molto, rimanendo fermo, seduto per terra, non so se mi spiego. Se non è ancora chiaro, i miei amici mi chiamano Trippa Trip. Trippa per il lardo che ho addosso, Trip per via dei funghi da viaggio.

Ieri mattina ero a casa, sono in cassa integrazione e non è un buon periodo, però ero bello tranquillo, avevo bevuto una birra analcolica e stavo passando in rassegna le corse dei cavalli. A un certo punto qualcuno bussa alla porta finestra che dà sull’orto. Pensavo fosse mia mamma, che alla mattina spesso viene a curarmi l’orto, una cosa che interessa più a lei che a me. Invece scosto le tende e mi trovo davanti un fungo. Somigliava a un prataiolo, solo che aveva sulla cappella delle macchie, come tante piccole guance arrossate dal sole o forse dal vino. Io non volevo aprirgli, non faccio mai entrare a casa mia i funghi sconosciuti.

 

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Poi lui mi dice che forse mia mamma magari passerà di lì e si farà qualche domanda vedendo un grosso fungo appiccicato ai vetri. Certo che parlava, non so come, perché è ovvio che i funghi non hanno una bocca, non bussano e soprattutto non sono alti un metro e settanta. Ma visto che la storia degli uomini è fatta per rompere i tabù, ho aperto. Se l’uomo sta conquistando i pianeti del sistema solare – impensabile una volta – un giorno non lontano, forse, anche aprire la porta ai funghi sarà la cosa più naturale del mondo. Come i neri che non potevano salire sugli autobus. Poi ci sono saliti e hanno fatto molto altro.

Certo che ero terrorizzato! Ma ho subito detto al fungo che forse gli avevo appena salvato la vita ed era in debito con me. Perché lui non conosce mia madre, che l’avrebbe assalito, portato a casa caricandolo nel baule, senza farsi troppe domande sulle stranezze della natura. Ora saresti in un freezer, gli ho detto. Ancora crudo o trifolato con aglio e prezzemolo. Quindi non farmi del male.

Mi ha detto che aveva le allucinazioni. Anch’io, gli ho detto. Gli ho chiesto se gradiva un po’ di acqua piovana e volevo farlo sedere in cucina, ma mi ha detto che i funghi non si siedono mai. Non dirmi che non lo hai mai notato, mi ha detto. Cosa ti salta in mente?

Io nei miei viaggi, altro che funghi seduti. Tocco i morti, vedo con i loro occhi. Volo sotto terra, senza luce, senza aria. Però aveva ragione, i funghi non si siedono, ma se è per questo non bussano nemmeno per entrare in casa.

Ora, se lo dico ai miei amici, sai le prese per il culo. Già quando avevo raccontato di avere trovato nel letto una locusta si erano fatti un sacco di risate. Perché sono così poco credibile?

Dovrei fare come fai tu, raccontare cose che somigliano al vero, raccontare un fungo o una locusta come si racconterebbe l’incontro con un amico o la spesa al supermercato. Se potessi raccontare i miei viaggi come fa uno scrittore, la gente ci crederebbe, come ci credo io. Credo che siano veri, anche se non ho le prove, come credo al fungo. Mi ha detto che si sentiva uomo, oppure che gli uomini erano somiglianti a lui. Li vedeva crescere con l’acqua, nei posti più umidi e nascosti e poi scomparire senza lasciare traccia. Mi ha detto che ha paura di diventare un uomo, ma che cose che sembravano impossibili si stanno avverando tutte. L’ha saputo dalle formiche rosse.

Il fungo ha fatto una doccia poi se ne è andato, pensieroso come prima. L’ho cercato nell’orto, ma non l’ho più trovato. Però intere colonie di formiche rosse marciavano ordinate sulle zolle: squadre, legioni, eserciti interi. Come se fossero certe della conquista del mondo, metodiche, instancabili, senza più ostacoli, senza più rivali.